venerdì 29 gennaio 2016

A volte etichettiamo gli altri... ingannati dai nostri stessi sensi

Pensate a una persona realizzata economicamente, mentre sale sulla sua automobile di lusso. Cercate di vederla nei particolari costruendo una sorta di fotografia.

Avete creato l'immagine? Che tipo di persona è apparsa nella vostra mente?
Si tratta per caso di un uomo sopra i sessant'anni, piuttosto grasso? No vero?

Più probabilmente avrete immaginato un uomo sui quarant'anni, un figo dall'aspetto curato e piuttosto atletico, con il viso abbronzato al punto giusto, un taglio di capelli istituzionale, magari un paio di occhiali da vista firmati, un orologio costoso al polso, un abito sartoriale, una Porche, una Maserati o una Jaguar. Sbaglio di molto?

Qualcuno si è forse immaginato un tipo alla Marchionne, con cachemirino nero o blue, capelli un poco spettinati e fisico non proprio atletico? Forse, ma credo che vent'anni fa nessuno avrebbe visto un'immagine del genere: ci ha messo un po' il mio omonimo ad entrare come simbolo di manager nei nostri rispettivi inconsci, che erano abituati a stereotipi del tutto differenti.

Per quale motivo, a una richiesta del genere, solo pochissimi si immaginano una donna? La mia domanda parlava di persona, infatti, che tra l'altro è un sostantivo femminile. Non ho detto un uomo o un manager. Ho detto persona.

Le neuroscienze studiano da anni il funzionamento del cervello e più di una ricerca ha dimostrato che spessissimo completiamo quello che vediamo con una sorta di "copia-incolla", attingendo a vecchie esperienze.
Il nostro cervello elabora, attraverso la vista, un gigabyte di informazioni al secondo (grossomodo mezzo milione di pagine A5), quindi molti dati vanno persi per agevolare la velocità, che duecentomila anni fa ci poteva salvare la vita.

Un interessantissimo studio dello psicologo statunitense George Armitage Miller, dimostra che possiamo elaborare fino a 7 informazioni contemporaneamente (più o meno 2, quindi da 5 a 9), a seconda della soggettiva capacità cerebrale.

Se leggete il numero 2456578 e siete concentrati, è probabile che riusciate a ricordarlo subito dopo, anche senza rileggerlo.
Ma se aggiungo altre due cifre e il numero diventa 245657832, solo pochissimi di voi riusciranno a memorizzarlo immediatamente dopo averlo letto una volta. Avrete bisogno di più tempo e di rileggerlo altre volte. Ho solo aggiunto due informazioni ulteriori e... il cervello va in tilt.

Per memorizzare un numero di telefono, quindi, lo suddividiamo in pacchetti meno impegnativi, trasformando la sequenza 393045897 in 393 045 897 e maledicendo chi crea dello stesso numero pacchetti differenti, come 39 304 589 7, perché non riusciremo a riconoscerlo subito, salvo ricostruire la cadenza a cui siamo abituati.

Un altro esempio, ancora sulla lettura:


Nino è un
un vero amico

Maria è la
la migliore venditrice

La mia automobile va
va a metano

Quanti di voi si sono accorti delle parole ripetute due volte? Immagino pochi.
Anticipiamo sempre mentalmente la conclusione corretta delle frasi, senza preoccuparci dell'esattezza di ciò che è scritto. Non c'è tempo, quello che conta è... il contenuto, e non importa se non è oggettivo: ci basta che sia soggettivo.

Potrei entrare ancora di più nel dettaglio delle interessanti ricerche nell'ambito della neuroscienza, ma credo che bastino questi pochi spunti per capire che il nostro cervello crea, alla fine, il mondo che vuole, quello più comodo e più veloce da leggere.

Quando siamo spinti a trarre conclusioni sugli altri, quindi, è inevitabile un grave rischio di errore, soprattutto nell'ambito della cosiddetta prima impressione.

Nel momento in cui ci viene presentata una persona per la prima volta, infatti, il nostro cervello si attiva per dare un significato a questa persona e lo fa sulla base di una serie di fattori, che sono per la maggior parte soggettivi, non oggettivi.

Elaboriamo in pochi secondi i già citati gigabyte di informazioni provenienti dalla vista, registriamo come è vestita questa persona, come è pettinata, ma anche come parla, che tono di voce ha, come ci dà la mano, come ci guarda o non ci guarda negli occhi, che profumo o odore emana, quanto si avvicina a noi o quanto ci sta alla larga durante i primi istanti di incontro.

Se siamo stati delusi in passato da qualcuno che aveva un tatuaggio sulla mano, sarà molto facile diffidare di un soggetto che ci porge una mano tatuata, anche se in realtà potrebbe essere la persona più onesta del mondo.
Al contrario potrebbe infinocchiarci quel truffatore professionista che si presenta davanti a noi con abito sartoriale e super car a noleggio per darci un'idea diversa di chi realmente è.

E' normale notare il negativo nell'altro, abbiamo una predisposizione naturale che nasce dall'istinto di conservazione (quello che ci fa pensare "fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio"), ma se ci sforziamo di aprire i sensi verso ciò che esiste di positivo nell'altro, anziché il contrario, forse potremmo diventare più oggettivi nei nostri giudizi.

Proviamo ad abituare il nostro cervello a riconoscere che le nostre percezioni non sempre sono la verità.
Proviamo a smettere di analizzare le nostre supposizioni o conclusioni su una determinata persona o situazione e a metterle in discussione, per raggiungere un quadro più completo.

I pregiudizi comportano un atteggiamento sbagliato: quando li emettiamo... smettiamo di imparare.

Proviamo, ancora una volta, a sostituire "sì però...", con "perché no...?"

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